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(L'articolo è stato fornito dalla Redazione del Corriere delle Alpi, in precedenza era stato pubblicato il 30 Gennaio 2007)

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Pedavena - Una birra tutta bellunese, basta mais, vai con l'orzo

di Toni Sirena

Il cereale servirà per un progetto industriale di grande interesse: la produzione di una birra da orzo tutta bellunese. Farà capo, naturalmente, alla birreria di Pedavena, e il prodotto diventerà un Ipg bellunese. Il progetto è stato esaminato lunedì e ha avuto il via libera dai soggetti interessati. Gli agricoltori, innanzitutto, disponibili a avviare la produzione.

La Birreria Castello. Le associazioni agricole. E poi la Provincia e la Comunità montana feltrina. Quasi certamente il Parco Dolomiti Bellunesi (l’interesse c’è, manca solo l’approvazione del direttivo). In termini tecnici, si chiama «microfiliera». In pratica verrà incentivata e «accompagnata» anche dal punto di vista tecnico (con la diretta partecipazione dell’Istituto Agrario di Vellai) la coltivazione dell’orzo in Valbelluna, per una quantità minima garantita di prodotto da conferire alla malteria. Da notare che non esiste ancora alcuna Ipg (Indicazione geografica protetta) italiana e che quindi questa sarebbe la prima (sono 10 in tutta Europa). Per la maltazione è stata individuata la malteria di Melfi, che fa parte del gruppo Castello.

Ne uscirà una birra speciale, che verrà commercializzata dalla birreria Pedavena (il nome della birra non è stato ancora deciso) e con la probabile certificazione di qualità del Parco. Un prodotto tipico bellunese, da inserire nel carnet di qualità del territorio. La birra da orzo bellunese diventerà insomma un prodotto di filiera della Valbelluna.

Provincia e Comunità montana dovrebbero farsi carico dei costi iniziali. Attenzione: il progetto dovrà navigare con le sue gambe, gli enti pubblici si limiteranno a garantire un contributo nella fase di avvio. Poi potrà rientrare nel Piano di sviluppo rurale, che diventerà però operativo solo nel 2008. Si vuole tuttavia partire subito, e dunque saranno gli enti locali a intervenire. Il problema è che gli agricoltori guadagnano di più a seminare mais, almeno in questa fase. La differenza verrà quindi coperta da Provincia e Comunità montana feltrina. Costo? Si parla di 15-20 mila euro. Non è una gran cifra.

Servono, per assicurare una concreta operatività al progetto, almeno 60 ettari da coltivare a orzo, il che significa dai 20 ai 25 produttori, ma non è escluso naturalmente che siano di più. E’ la quantità minima ritenuta necessaria per poter partire con la produzione di birra, proporre un marchio e avviare la campagna di commercializzazione. Si tratta della fase di avvio, ma l’iniziativa è incoraggiata dall’Istituto Agrario che l’anno scorso ha fatto una sperimentazione che ha dato risultati positivi. In sostanza, la varietà di orzo coltivata e coltivabile nel Bellunese permette caratteristiche buone della birra.

E’ già in calendario una riunione operativa con i produttori a metà febbraio, nella quale verranno affrontati i problemi della raccolta, della logistica, dello stoccaggio e del trasporto del prodotto.


La produzione di orzo da birra nel Bellunese non è un’idea piovuta dal cielo

Risponde alla necessità di trovare strade nuove per garantire un futuro e una redditività all’agricoltura locale. E’ un problema generale di tutta l’agricoltura italiana, che deve fare i conti da un lato con il mercato internazionale sempre più competitivo, dall’altro con la continua modernizzazione del settore. L’agricoltura europea ed extra-europea minaccia di mandare fuori mercato le nostre produzioni tradizionali, o comunque il settore così come si è strutturato in Italia. Sul mercato resterà chi riuscirà ad affrontare positivamente le sfide della competizione. E c’è da sgombrare subito il campo da un’altra illusione: quella di poter fare ancora affidamento su incentivi e contributi pubblici.

Insomma, il futuro non è roseo. Per questo lo sviluppo di prodotti di nicchia diventa un imperativo categorico. «Il marchio Igp», dice Ivo Bozzato, direttore della Coldiretti, che ha aderito al “progetto orzo”, «garantisce un più alto valore aggiunto alla produzione, e la rende quindi competitiva».

 «Il problema è pensare al futuro, a quale agricoltura fare in provincia», dice Mauro Alpagotti, presidente della Cia. «La zootecnia deve restare il cardine della nostra agricoltura, ma si sta riducendo sempre di più. Per quanto riguarda i seminativi, siamo di fronte a un continuo calo dei prezzi a livello mondiale, e nel 2013 cesserà ogni forma di integrazione del reddito, scompariranno aiuti e incentivi». E allora, bisogna trovare strade diverse. «Per la zootecnia sviluppare anche la carne, mantenendo la linea latte», dice ancora Alpagotti.

 L’orzo può essere una di queste nuove strade, in grado di inserirsi in una filiera locale di interessanti prospettive. (t.s.)


Il progetto ha una valenza economica, ma anche colturale (e insieme culturale)

L’orzo costituisce la principale materia prima per la produzione della birra, ma oggi oltre 100 mila tonnellate di malto (due terzi del fabbisogno nazionale) sono importate ogni anno. Per ottenere i 13 milioni di ettolitri di birra prodotti in Italia (30 litri a testa di consumo annuo) si usano più di 150 mila tonnellate di malto e 50 mila di cereali non maltati. La produzione di malto, e quindi la coltivazione di orzo da birra sono molto inferiori rispetto alle esigenze. Per questo c’è grande spazio in Italia per la produzione di orzo destinato alla birra e soprattutto per produzioni «tipicizzabili».

 C’è bisogno, per questo, di malterie locali che gestiscano l’acquisto sul territorio di quantità certe di prodotto. Solo così, sostiene l’Istituto sperimentale per la cerealicoltura, i coltivatori possono essere garantiti. Se ora si prevede di conferire il prodotto alla malteria di Melfi, un domani non è esclusa l’attivazione di una micromalteria in grado di garantire l’acquisto di un ingente quantitativo di orzo. L’agricoltore può dunque vendere il lotto alla malteria spuntando un prezzo superiore, mentre la filiera potrebbe chiudersi interamente sul territorio.

 Oggi l’orzo da birra si coltiva principalmente al sud dell’Italia, con raccolti primaverili, ma una vera competitività degli orzi da birra italiani può essere raggiunta solo con l’introduzione di varietà invernali, soprattutto al nord, maggiormente produttive. Lo sostiene anche l’Istituto sperimentale di Cerealicoltura che sta perseguendo l’obiettivo di una selezione di orzi da birra autunnali adatti agli ambienti italiani. Ma naturalmente, molto dipende dalla vocazione dei singoli territori e dal loro clima.

 E’ quello che verrà fatto in provincia di Belluno, anche se si parla di raccolto primaverile, e non ancora autunnale. L’obiettivo del progetto è di partire con le semine già questa primavera, per avere il primo raccolto in giugno. I sessanta ettari necessari sono già stati trovati, garantendo agli agricoltori una redditività comparabile a quella del mais. Perché il problema è proprio questo. Oggi i produttori seminano mais, destinato alla zootecnia.

 Dal punto di vista colturale è una vera piccola-grande rivoluzione, che potrà prendere piede e svilupparsi ulteriormente. L’orzo era una coltivazione tipica della provincia di Belluno prima dell’avvento del mais. Ora si ritorna «all’antico» (gli stessi Luciani avevano all’inizio una filiera dell’orzo), ma in chiave moderna. E questo comporterà anche, oltre al riconoscimento e valorizzazione di un prodotto locale, davvero autoctono, anche il recupero del paesaggio di un tempo, quando il mais non esisteva. Un altro piccolo risparmio verrà dall’utilizzo di minori quantità d’acqua, perché il mais è una coltura altamente idrovora.

Fonte Corriere delle Alpi

Febbraio 2007

Ultimo Aggiornamento: 04/01/2016 11.16

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