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Piccole, tradizionali,
creative
John
McKenna
slowine messaggero di gusto e
cultura numero 33, ottobre 2002
Dopo decenni di omologazione alimentare e di
mortificazione della diversità rinasce il gusto per le piccole produzioni
di stampo artigianale. Una grande tradizione si rinnova grazie al recupero
creativo di antiche tecniche produttive.
La storia della produzione birraria in Irlanda nel XX
secolo ricalca fedelmente quella della cultura alimentare del paese in
quei cento anni. Al momento dell’indipendenza dell’Irlanda, nel 1922, le
diverse componenti della cultura alimentare erano differenziate, regionali
e caratteristiche. Dappertutto piccole aziende fabbricavano birra,
infornavano pane, distillavano orzo, macinavano farine, commerciavano in
carne e pesce, esportavano e importavano. La cultura del cibo era
individualista e grandiosa. Ma, nei cinquant’anni successivi
all’indipendenza, la diversità, gli elementi peculiari e regionali sono
stati sacrificati. Per esempio, l’enorme numero di distillerie di
whiskey si ridusse rapidamente a un’unica società, la Irish Distillers,
che operava in due soli impianti in tutto il paese e ha goduto di un
monopolio assoluto del mercato fino alla nascita della piccola Cooley
Distillery negli anni Novanta. Nella produzione alimentare la diversità e
gli elementi regionali sono pressoché scomparsi, e alla riduzione della
scelta si sono accompagnati un declino di interesse e apprezzamento per il
cibo irlandese e una ridotta consapevolezza delle sue peculiarità e della
sua semplice bontà. Decenni di pesante declino economico hanno colpito
seriamente la cultura irlandese del cibo. La devota nazione cattolica,
fiera dei digiuni e delle rinunce, aveva poco tempo e ancor meno denaro
per coltivare la passione per il buon cibo e il buon bere. La ricca storia
culinaria irlandese che includeva stretti legami con i grandi châteaux di
Bordeaux, che fece del paese un importante esportatore di prodotti in
tutto il mondo e trasformò Dublino nella seconda città più attiva
dell’impero britannico durante il secolo XIX, era semplicemente scomparsa.
Non si producevano con successo cibi artigianali per un pubblico ricettivo
e, per esempio, fino alla fine degli anni Settanta l’Irlanda offriva una
scelta tra due soli formaggi! Un paese traboccante di mucche da latte non
annoverava un solo formaggio artigianale contadino.
Il monopolio
della Guinness Il declino della diversità ha avuto un’eco nel mondo
della birra, un tempo fonte di svariate tipologie fabbricate da centinaia
di piccoli birrai presenti in lungo e in largo per il paese. Il declino
economico ha permesso agli operatori più grandi del settore di annettersi
tutte le piccole aziende e di controllare gradualmente il mercato, prima
tra tutte, naturalmente, la Guinness di Dublino. Celebre per la sua
stout secca, una birra scurissima, la Guinness ha finito per
dominare completamente il mercato della birra al termine di una lunga
storia di pratiche commerciali aggressive che hanno distrutto le sue
numerose rivali, tanto da lasciare una fetta solo alle due di Cork,
Beamish & Crawford e Murphy’s, entrambe produttrici parimenti di una
famosa stout. La Guinness si è giovata non solo di un’aggressiva
politica commerciale, ma anche del fatto di essere una bevanda eccellente,
definita da una qualità e da un’affidabilità eccezionali. Sotto molti
aspetti, in un periodo in cui il paese era un luogo grigio e piatto, la
pubblicità vivace e fantasiosa della Guinness, la sua affidabilità e la
sua espansione in tutto il mondo hanno creato una situazione in cui
personificava l’Irlanda.
Poi, d’improvviso, la situazione ha
cominciato a cambiare e la realtà e le pratiche conservatrici dei grandi
birrifici hanno cominciato a suscitare una reazione. Anche in questo caso
si tratta di un’eco della cultura alimentare più generale: un paese che
offre solo due formaggi prodotti in serie prima o poi deve creare una
situazione in cui un agricoltore fa un esperimento con un po’ di latte,
caglio e sale e scopre di avere in mano un formaggio contadino. È
esattamente ciò che è successo quasi trent’anni fa, quando sono spuntati i
primi germogli del movimento artigianale irlandese che oggi ha regalato a
gran parte del paese una varietà in continua crescita di veri cibi
artigianali che si giovano di antiche tecniche produttive e delle numerose
differenze climatiche. Parimenti, i birrai che credevano nella tipicità
e nella purezza hanno cominciato a opporsi alle birre convenzionali delle
marche che puntavano sempre più sul marketing a scapito della qualità.
Oggi la Guinness suggerisce di bere il suo prodotto freddissimo, un vero e
proprio anatema per l’appassionato di stout, il quale sa che la
birra nera va servita a temperatura ambiente per apprezzarne tutto l’aroma
e la consistenza. La Guinness ormai è poco più di un’alco-pop, come
direbbero gli americani, ossia una bevanda di moda e basta. Ma gli
appassionati di cibo e di birra sono sempre pronti a gettarsi nella
mischia e a riproporre la vera qualità e creatività. All’inizio degli anni
Ottanta sono nati i primi brew pubs irlandesi che, pur non
sopravvivendo, hanno gettato il seme di un approccio alla fabbricazione
opposto a quello dei grandi birrifici. La produzione di birra artigianale
come tradizione, come atto gastronomico creativo, si era così riaffermata
e, con l’apertura della piccola Hilden Brewery in Irlanda del Nord, un
birraio è riuscito finalmente a imporsi e a sopravvivere.
Tipicità e diversità Poi, a metà
degli anni Novanta, c’è stata un’improvvisa accelerazione. Niall Garvey ha
aperto il piccolo birrificio Biddy nel paesino di Inagh nella
contea di Clare e, oltre a offrire una gamma di ottime birre, ha
resuscitato l’antica arte di chiarificare i suoi prodotti con il
carrageen (Chondrus crispus), un’alga che cresce sulle coste
irlandesi. Così, da un momento all’altro, la storia e l’innovazione
rialzavano la testa e, con la costituzione della Irish Brewing
Company in quello stesso anno, rinasceva la produzione artigianale
della birra. L’anno seguente, il 1996, sono nati due dei birrifici
fondamentali per il movimento artigianale. Con l’apertura di The
Porterhouse nel Temple Bar di Dublino, spuntava dal nulla un brew
pub elegante e alla moda che offriva un’ampia gamma di birre di
produzione artigianale, alcune delle quali, come la favolosa oyster
stout, riprendevano antiche tecniche di produzione. Ma The Porterhouse
ha anche rivelato una semplice verità, dimostrando che un unico birrificio
può produrre una gamma di birre diverse, di grande tipicità, concepite e
realizzate in modo creativo. Erano anche scherzose, per ricordare che bere
birra può e deve essere un divertimento. Proprio dall’altra parte del
fiume Liffey, a Dublino, Kieran Finnerty e Liam McKenna hanno fondato la
Dublin Brewing Company, dove hanno compiuto il passo rivoluzionario
di produrre e vendere birra ad altri pub oltre che al loro.
Nonostante tutti i tentativi dei grandi birrifici di rendere loro la vita
difficile, l’alta qualità delle birre della Dublin Brewing Company – una
stout, una red ale e una birra di frumento – ne hanno
assicurato il successo.
Queste birre hanno ridicolizzato le pretese
dei grandi birrifici, dimostrando che soltanto i birrai artigianali
producevano bevande realmente pure e destinate agli amanti della birra, in
quanto nascevano dall’idea della tipicità e miravano a offrire diversità e
particolarità. Naturalmente, i grandi produttori hanno reagito annunciando
a gran voce di voler produrre anch’essi birre artigianali, ma i loro
proclami tanto strombazzati non sono approdati a nulla. Dopo il
conseguimento della vittoria morale, hanno cominciato a nascere altri
birrifici artigianali: Dwan’s a Thurles, contea di Tipperary; la
Franciscan Well Brewery a Cork, seguita di recente dalla Kinsale
Brewery, che opera fuori dal porticciolo che si trova dieci miglia a
sud-ovest della città di Cork. A Carlow la superlativa Carlow Brewing
Co. ha creato una stout – la O’Hara’s – che ha sbaragliato la
concorrenza nei concorsi internazionali e rappresenta la più dura critica
che sia stata mossa alle birre di massa. O’Hara’s ha tutto della
stout: è tostata e luppolata al sapore, ha un corpo eccezionalmente
vivace e vigoroso, una consistenza robusta e convincente. È un capolavoro
dell’arte birraria e, a chi ha una certa età, ricorda che cosa può essere
e che cosa era una volta la stout. Le birre industriali sono anonime,
tutte uguali e prive di fantasia. Come non è possibile paragonare un
formaggio artigianale a uno industriale, così l’abisso che esiste tra una
birra artigianale e una bevanda prodotta in serie non è solo questione di
differenze: la prima abita un altro universo, a partire dalla disposizione
mentale da cui nasce. Tutti i grandi cibi – e la birra lo è – sono
concepiti in modo fantasioso, creativo, con purezza di intenti, in modo
semplice e limpido.
I birrai artigianali irlandesi che si sono
affermati negli ultimi dieci anni hanno dimostrato di saper fondere le
pratiche del passato e gli stili delle birre storiche con innovazioni
creative. Portano avanti la grande tradizione della birra artigianale ma
la aggiornano, e le loro energie le conferiscono una nuova forza vitale.
Che si beva un boccale di Black Biddy della contea di Clare o una Maevels
Crystal di frumento di Dublino, si entra in contatto e si assapora la
cultura stessa della birra artigianale, le tecniche, la pazienza, la
storia, la creatività non ambigua, il desiderio di dare piacere. E
questo rispetto per il piacere e per la capacità degli artigiani di
trasmetterlo con il loro lavoro è stato la chiave di volta di ogni aspetto
della rinascita culinaria irlandese. I birrai artigianali sono la fanteria
della rivoluzione, insieme con gli agricoltori biologici, gli affumicatori
di pesce, i formaggiai, i fornai e le tante persone che hanno riaffermato
il piacere del cibo vero.
Giugno 2005 |