Belgio: al voto i monaci della birra «Solo carità, no agli affari»
Monaco Trappista
Più richieste sul mercato, ma il referendum boccia l’aumento di produzione
La produzione in pochi monasteri, la vendita in tutto il mondo. E una regola: i ricavi vanno distribuiti in beneficenza
BRUXELLES — «II legno e la pietra possono insegnarti più cose dei migliori maestri», dice un pensiero attribuito a San Bernardo, e citato frequentemente dai monaci cistercensi, in Belgio. E la birra, allora? La birra disseta, nutre e talvolta riempie il portafogli, ma proprio per questo induce anche in tentazione. Ben l’hanno capito gli stessi monaci, che la producono da un paio di secoli: 120-160 mila ettolitri all’anno in ciascun monastero, limitati secondo una vecchissima regola, sigillati da ricette lasciate in eredità da un abate all’altro; e destinati solo ai propri pasti quotidiani, agli ospiti, o al finanziamento di qualche opere di carità. Ma da qualche anno il mercato chiede di più, molto di più. A Bruxelles, Londra, a Parigi, ovunque. Ed è pronto a pagare anche di più.
Un vero dilemma etico-commerciale per i monaci. E però loro, dopo essersi consultati con una sorta di referendum interno - «Che cosa dobbiamo fare?» - hanno deciso: non aumenteranno la produzione, pazienza per gli incassi mancati; le avventure alla Lehman Brothers non fanno per chi si è imposto come guida di vita il motto «ora et labora». Ma il rischio di deviare dalla strada antica è stato grande. Perché questa roba speciale, una bevanda color d’ambra e profumo di quercia, tosta e piena e sapida, non quella gazzosina gialla che ingurgitano gli immemori americani, sembra far impazzire la vecchia Europa, fortemente consapevole della sua storia. La Westmalle, la Chimay e le altre birre chiamate «trappiste» (le producono sei birrerie monastiche in Belgio, e una in Olanda) sono richieste in Gran Bretagna come nei Paesi baltici, in Scandinavia come in Spagna. E in tutte le varietà: dalla «potio fortis», la bruna «pozione forte», alle altre chiarette che hanno sempre una gradazione alcolica più alta (fino ai 12 gradi) di quelle «normali».
Per essere davvero «trappiste» devono rispondere a 3 requisiti: essere prodotte in un monastero, dai monaci, e servir solo al sostentamento, o alla beneficenza. Sempre stato così, da quando fra Martinus Dorn, il 10 dicembre 1836, brindò con il primo boccale «Doc», debitamente benedetto. E anche prima, quando ancora si brindava con la birra «normale». Il dilemma per i monaci era adesso: abbandonare la regola e produrre per soddisfare la domanda dei consumatori? Un altro motto di queste abbazie dice «Nooit rust», «Mai riposo», dunque non sarebbe stato impossibile. Ma come fare, senza assumere degli operai, allungare gli orari di lavoro? E dove mettere poi i guadagni? Alla fine di quest’estate, il «referendum» e le consultazioni fra le varie abbazie. Hanno parlato anche i tecnici, i direttori dei vari impianti: che sono assai moderni, e governati dal computer anche se ospitati fra mura medievali. La risposta favorita da questa «democrazia in tonaca» è stata quasi unanime: non si cambia, né si assumono «laici», per non costringerli poi a star lontani dalle loro famiglie per fare gli straordinari in convento.
Come ha detto uno dei consultati: tutto deve restare su una «scala umana». Ma c’è stato anche qualche gentile mugugno: «Più guadagniamo e più opere di bene possiamo fare, no?». Niente da fare. La birra, assicurano i manifesti delle varie abbazie, continuerà ad essere prodotta in modo «onesto», e fornita a chiunque la voglia, senza favoritismi o discriminazioni. Del resto, anche oggi, si offrono confezioni in offerta speciale per le cene aziendali: insomma, non è ignoto il laicissimo marketing. Ma la storia, la storia è un’altra cosa: quando in questi conventi giungevano altri monaci, in fuga dalla rivoluzione francese, trovavano sempre un barilotto pieno, lasciato sulla porta per il viandante assetato. E se c’era da cucinare per l’ospite, «nooit rust», riposo mai, tutti in piedi, altro che Lehman Brothers.