Alle porte delle Langhe, sul Tanaro, in
Piemonte, una delle terre italiane più votate al buon vino, prospera il più importante
produttore italiano di birre artigianali di qualità. Si chiama Matterino Musso, ma è
conosciuto da tutti come Teo.
La sua birra, invece, si chiama Baladin. Questa è la loro storia.
La prima domanda è d'obbligo: come si fa a produrre birra al cospetto delle Langhe?
"Si fa, perché amo la birra anche se vivo nella terra dei vini. Si fa senza
problemi, perché la grande birra, e il grande vino, quelli di grande fattura artigianale,
vanno giustamente a braccetto. Non c'è contraddizione: un momento è adatto per gustare
il vino, in altre occasioni è più indicata la birra. In comune, entrambi hanno l'alta
qualità. Pochi giorni fa, durante una degustazione di grandi vini dolci, ho sturato una
bottiglia di una mia birra, invecchiata e lavorata secondo il metodo Solera, lo stesso con
cui nascono gli Sherry; è un esperimento, ne faccio in tutto 20 bottiglie l'anno, non di
più. E' stato come gustare vino dolce, con profumi e sapori diversi, ma stessa qualità e
medesimo piacere in bocca e nel cuore. Quando si punta alla qualità, ci si trova
"fratelli" in questa ricerca. Le mie birre sono una sintesi fra i processi
produttivi di birra e vino, e di quest'ultimo hanno i profumi e la grazia. Certo, il
mercato ancora non premia: in Italia si conoscono solo le birre proposte dalla grande
distribuzione (ma attenzione: non sempre i prodotti industriali sono banali, come non
sempre quelli artigianali sono sublimi). Tuttavia qualcosa, personalmente, cerco di
muovere. Se penso che, sino a 30 anni fa, anche i grandi vini erano sconosciuti, mi sento
ottimista per il futuro".
Teo Musso nel suo regno
Qual è stato il suo primo incontro con la birra?
"Sono nato a Piozzo, nel 1964, da genitori contadini, che naturalmente producevano
vino... Le mie passioni erano, e sono tutt'oggi, i viaggi e la musica. Da giovane bevevo
di tutto, ma conoscevo solo la birra industriale. Poi un giorno, a 20 anni, capitai a
Mons, in Belgio. In un bar ordinai una birra, la Chimay tappo blu, e fu una folgorazione.
Quel giorno decisi che la birra sarebbe stata la mia professione".
Quanto è importante il Belgio nel mondo della birra?
"E' fondamentale. Per misteriose ragioni storiche, in quel piccolo grande Paese si è
concentrato il top della qualità. Ci sono due scuole nel mondo della birra. La prima,
dominante (oltre il 90% della produzione mondiale), è quella a bassa fermentazione,
tipicamente tedesca, con le sue lager, pils e bock, che ben si prestano ai grandi numeri
dell'industria. Poi c'è la scuola dell'alta fermentazione, per me immensamente più
interessante, tipicamente belga e anglosassone, dove si trova tradizione di
qualità."
La differenza?
"Sono due concetti molto diversi, soprattutto per quanto riguarda il lavoro di
cantina. Cambiano i ceppi di lieviti, le temperature e la durata della fermentazione. In
Belgio si fermenta con lieviti simili a quelli del vino, il Saccharomyces cercvisiae, che
è appunto un sottoceppo dei lieviti da vino, mentre nella tradizione tedesca se ne usano
altri, come il Carlsberg jensis. Anche i mosti sono diversi, ma soprattutto è diversa la
filosofia: non la ricerca di un onesto prodotto industriale, ma la continua lotta per la
qualità. I belgi sono stati pionieri nell'arte di invecchiare la birra, soprattutto con i
tipi Lambic e gueze."
Torniamo a Mons, ai tempi del suo primo innamoramento.
"Tornato a casa, decisi di aprire una birreria a Piozzo: la chiamai 'Baladin', che in
francese vuol dire 'cantastorie', anche se è un termine desueto. Sono arrivato a proporre
oltre 300 diversi tipi di birra, tutte le migliori, insieme con pochi piatti, soprattutto
salumi e formaggi, e tanta buona musica. Era l'unico locale della zona con questa offerta.
Il lavoro era tanto e io ero contento."
Vendere birra, però, è altra cosa che farla...
"Senza dubbio. Nel 90' andai a visitare un locale di Strasburgo, dove incontrai un
francese, uno dei pochi esperti di birre artigianali o, meglio, di micro-birrifici, che
stava installando un impianto in città. La conversazione con lui fu un'altra
folgorazione: decisi che, prima o poi, mi sarei messo a fare birre artigianali di
qualità. Proprio in quegli anni questo fenomeno stava arrivando in Europa dagli Stati
Uniti, dove l'immensa forza e dominio del grandi marchi, paradossalmente, aveva lasciato
spazio all'emergere di produttori artigianali. Un fenomeno tanto importante da essere
battezzato, in America, 'Bier Renaissance', e che ormai è arrivato a coprire più o meno
il 5% della produzione di birra dell'intero territorio, con circa 1500 piccoli marchi di
birra 'cruda', come si dice tecnicamente, cioè non pastorizzata. Poco in percentuale, ma
in valore assoluto tantissimo. Insomma, iniziai a collaborare in Belgio con piccoli
birrifici, soprattutto con Jean Luois Dits, patron della Brasserie a Vapeur', di Pipaix,
vicino a Mons, amico con il quale ho poi diviso la mia passione per la birra. In questo
sono stato fortunato: è raro che gli stranieri vengano ammessi in una sala di cottura,
poiché ogni produttore difende i propri piccoli e grandi segreti. Il sogno di proporre in
Italia una buona birra artigianale era sempre vivo, ma i costi erano fuori dalla mia
portata. Con Dits, allora, misi a punto macchinari più piccoli, flessibili e innovativi,
e alla fine riuscii a installare, nella birreria, la prima linea: era il 1996. Oggi non
funziona più, ma si trova ancora all'ingresso del locale."
Era già una birra buona?
"Si, era buona, anche se migliorabile; per fortuna non ho mai buttato via niente. Non
era pastorizzata né filtrata, e per nulla manipolata. Era rifermentata in bottiglia: è
la rifermentazione, un processo simile a quello che si fa per lo Champagne, a dare il
segno della qualità. La pastorizzazione è facile e rende tutto uguale, appiattisce
gusti, sapori e profumi. La rifermentazione, invece, è un processo più complesso che,
però, rende la birra viva, migliore con l'invecchiamento, proprio come avviene con un
grande vino. E infatti, non tutte le birre sono rifermentabili. Qualche tempo fa ho fatto
una verticale, cioè un assaggio della stessa birra, ma di annate diverse: è stata una
vera scoperta vedere come si era evoluta... La birra buona non scade, proprio come il
vino. La birra corrente, bionda, gasata, pastorizzata e amara, da bere gelata, lei si che
invecchia male."
Quanta birra produce oggi?
"Produco sei diverse tipologie di birre alla spina, in totale 80.000 litri, che vendo
nel mio locale e presso altre sette birrerie amiche. Inoltre nella mia birreria, delle 300
etichette iniziali, ne ho conservate solo una ventina, che amo particolarmente. Le mie
birre in bottiglia sono cinque, più una nata per Natale, la 'Noel', anche in formato
magnum, che però, viste le richieste, è sempre disponibile: in totale 90.000 bottiglie
l'anno, tutte da 0.75 litri, tutte rifermentate per tre settimane. Spaziano dai 5 gradi
alcolici della 'Isaac' ai 9 della poderosa 'doppio malto Noel'. Ci sono infine due birre
biologiche, la 'Nora' e la 'Wayan', la prima con marchio bio in Italia: le vendo a
enoteche, wine bar, gastronomie, ma anche a più di 200 ristoranti. Esporto qualcosa anche
all'estero, soprattutto negli Stati Uniti, in Australia, in Spagna e in Danimarca."
Quali abbinamenti può consigliare con la sua birra?
"Con la birra sta bene tutto ciò che è buono. A mio parere, soprattutto i salumi e
i formaggi, o i piatti a base di questi prodotti. L'importante, è non bere la birra
gelata! Su tutte le mie etichette è sempre indicata la temperatura di servizio, che va da
8°C, fino alla temperatura ambiente, cioè 18°C."
Sono care?
"La cura, le materie prime e le tecniche impiegate per produrre una birra artigianale
portano inevitabilmente a un prezzo più alto rispetto alla birra di fattura industriale.
Alla spina, le mie birre costano 4 euro la pinta, che equivale a poco più di mezzo litro,
in linea con i più diffusi concorrenti di pregio. Per le bottiglie, senza arrivare ai 25
dollari che si pagano nei ristoranti di New York, in Italia è normale trovarle a 10/11
euro."
Quanti sono i suoi colleghi italiani che producono con la sua stessa filosofia?
"Più di quanto si pensi, oltre un centinaio. Sono tutti piccoli, anche se non è
importante la dimensione della produzione, quanto la mentalità che guida chi produce e le
tecniche usate. Numericamente, Chimay è un colosso, ma resta comunque un artigiano. Il
più grande degli artigiani."
Una volta produceva la birra nel suo locale. E ora?
"Ora, invece, la produco in un piccolo laboratorio a 300 metri da qui. Le birre
arrivano in birreria grazie a un 'birrodotto' che ho posato sotto il manto stradale grazie
all'Enel, che stava facendo alcuni lavori. Sto modificando la prima linea di produzione,
per fare le gelatine di birra, dette anche 'birra cotta'. Siamo solo in tre al mondo a
produrle. Se ne occupa Nora, la mia compagna, che è riuscita a creare gusti di una
delicatezza e di un'intensità incredibile. Fa bollire la birra con zucchero, addensa con
agar agar e imbarattola. La gelatina di birra ricorda un po' il mosto d'uva ed è perfetta
con i formaggi."
Quali progetti ha per il futuro?
"Da grande continuerò a produrre birra artigianale, con il mio stile. Continuerò a
sviluppare tecniche nuove e interessanti: sto studiando la rifermentazione in fusti, ma
anche quella in bottiglia per sei mesi e oltre. Poi, per unire le mie passioni,
continuerò a studiare l'effetto che la musica produce sui lieviti durante la
fermentazione. Da grande continuerò a lottare per i microbirrifici, perché non smettano
di prosperare, ognuno con il proprio stile e la propria immagine: il rischio di
omologazione, purtroppo esiste anche nel nostro piccolo mercato. E in tutti i modi
convincere gli italiani che la birra può essere un grande prodotto. Esattamente come il
buon vino."
Allan Bay