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Pagine Gialle della Birra
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Come si spilla la birra?
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Dossier Birra e Salute
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Birra - Gli anni del
fermento
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Sul numero di dicembre
(23) di "Slowfood" in edicola sono stati pubblicati alcuni articoli legati
al mondo della birra.
- "L'abito trappista" di
Michael Jackson, traduzione Davide Panzeri, un brano tratto dal libro dello
stesso Jackson, pubblicato in Italia da Slowfood editore, intitolato "Storie
nel bicchiere di birra, di Whisky, di vita"
- "L'humulus Lupulus e
la progenie nana" di Andrew Catchpole, tradotto da Davide Panzeri
- "Gli anni del
fermento" di Luca Giaccone.
Per quest'ultimo vi
proponiamo un assaggio e vi rimandiamo al sito di Slowfood per l'articolo
intero.
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L’Italia
non ha mai avuto una grande tradizione birraria: soltanto il
nord del paese ha subito
qualche influenza
dall’impero austro-ungarico,
con la presenza di un discreto
numero di birrifici,
ormai quasi tutti chiusi. Con i suoi
29,6 litri di consumo annuo
pro capite, l’Italia
occupa l’ultimo posto della classifica europea,
surclassata dai 160 litri
della Repubblica Ceca,
dai 115 della Germania o dai 93 del
Belgio, ma superata anche, e
di parecchio, dai 40
della Grecia, dai 61,7 del Portogallo e
dagli 80,6 della Spagna, paesi
mediterranei come il
nostro (dati 2004, fonte Assobirra).
Al di là dei numeri, però, il
vero problema italiano
è sempre stato in un’enorme lacuna culturale: la birra è sempre stata vista
secondo il triste luogo
comune che la identifica con una
bevanda bionda, leggermente
amarognola e
abbondantemente gasata, da servire preferibilmente
ghiacciata. Fino a una decina
di anni fa, nemmeno si
immaginava qualcosa di diverso.
I
pochi birrifici industriali attivi si sono
quindi adeguati a questo
cliché (o, forse, ne
sono stati causa) producendo soltanto lager
(birre a bassa fermentazione)
decisamente anonime.
Fanno parziale eccezione la Pedavena,
in provincia di Belluno, la
Menabrea di Biella e
soprattutto la Forst di Lagundo, vicino
a Merano, che ha sempre messo
la qualità dei suoi
prodotti al primo posto (ad esempio, tutte
le birre in fusto non sono
pastorizzate); ma rimangono
purtroppo casi isolati nello
sconfortante panorama
industriale italiano.
MOLTO È
CAMBIATO
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Luca
Giaccone
Tutto
questo fino a 10 anni fa, quando è esploso il fenomeno dei birrifici
artigianali;
precedentemente c’erano state alcune esperienze,
ma si trattava di casi assai
isolati: citiamo St.
Josef di Corrado Esposito, aperto a
Sorrento nel 1983, Birra
Dolomiti (ora Montevecchio)
di Adis Scopel, attivo dal
1993 in Sardegna,
Orabräu (chiuso nel 1994) dei fratelli
Oradini ad Arco, sul lago di
Garda, Aramini (chiuso
nel 1996) a Vaglio Serra, in provincia di Asti.
Dopo
il 1996, invece, la crescita numerica dei birrifici
diventa sempre più importante, grazie anche a un cambiamento normativo, con
la pubblicazione di un «Testo unico delle disposizioni legislative
concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni
penali e amministrative»
(D.L. 26 ottobre 1995, n.
504), che elimina
l’obbligo della presenza di un funzionario dell’Ufficio
tecnico finanza a ogni
produzione e la pratica
di piombatura dell’impianto dopo ogni
cotta. In realtà ancora oggi
l’ iter burocratico che
i birrai devono affrontare è complesso, illogico
e dal sapore vagamente
medievale. Nel giro di
pochi mesi, tra il 1995 e il 1996 nascono,
senza conoscersi tra loro,
diversi birrifici,
quasi tutti ancora oggi attivi: Baladin a
Piozzo (Cn), Beba a Villar
Perosa (To), Befed ad
Aviano (Pn), Birrificio italiano a Lurago Marinone
(Co), Busalla a Savignone (Ge),
Centrale della birra a
Cremona, Circolo 50 a Campi
Bisenzio (Fi), Lambrate a
Milano, Greiter a
Merano (Bz), Mastro birraio a San Giovanni al
Natisone (Ud), Norton a
Rimini, St. Johannes
Brau a San Giovanni di Casarsa (Pn), Titanic
a Lamezia Terme (Cz), Turbacci
a Roma. I nuovi mastri
birrai si conoscono spesso per
caso, ad esempio attraverso
gli stessi fornitori di
materie prime e attrezzature: basterà attendere
il 1997 per vedere nascere
Unionbirrai,
associazione di categoria che ha fatto molto,
in questi anni, per promuovere
la cultura della birra
artigianale. In 10 anni
moltissimo è cambiato, sia quantitativamente
sia qualitativamente, e si è
abbondantemente
superato il numero di 150 birrifici (ottimamente
recensiti da Lelio Bottero,
nel suo La birra
artigianale – Guida ai microbirrifici italiani,
Gribaudo, 2005). Purtroppo, a
un così notevole
incremento numerico non è seguita, almeno
non per tutti, un’analoga
crescita qualitativa; rimangono
molti i birrifici che hanno
fiutato il business e
non hanno messo la passione e la conoscenza
della birra al centro
dell’attenzione. Sono
ancora troppi, infatti, i birrifici artigianali in
cui le birre sono presentate
male, servite troppo
fredde o in condizioni non accettabili: ho visto
personalmente un brew pub
presentare le birre sul
menù come "bionda", "rossa", "nera", senza
alcuna altra indicazione
(c’era, però, il prezzo…),
nemmeno i gradi alcolici!
È
vero che, in ogni caso,
si tratta di birre non pastorizzate, vive,
prodotte in loco, ma credo che
la scarsa
professionalità sia un danno per tutto il movimento:
trovo decisamente
controproducente che un artigiano che dedica fatica, tempo e denaro alla sua
attività non sia poi in grado di servire,
nel modo più corretto
possibile, un prodotto
che sia organoletticamente valido.
Per fortuna, però, la maggior
parte dei birrai lavora
con sapienza e passione e oggi abbiamo
molte birre davvero
interessanti; il fenomeno
è ormai esploso e alcuni dei
nostri birrai più
capaci esportano regolarmente all’estero,
negli Stati Uniti, in Russia,
in Giappone.
Nell’ultima edizione del "Great British Beer
Festival" (la più importante
manifestazione birraria
del Regno Unito) sono state presentate
ben otto birre artigianali
italiane che, nonostante
il prezzo proibitivo di sette
sterline a bottiglia,
sono andate a ruba: i giornalisti e gli
esperti hanno capito che il
fenomeno italiano va
seguito con molta attenzione e sono colpiti
dalla bravura e dalla fantasia
dei nostri birrai.
L'articolo
prosegue qui
http://editore.slowfood.it/editore/riviste/slowfood/IT/23/articoli/slowfood23_26.pdf
Fonte SlowFood
Dicembre 2006
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