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Birra -
Terra Madre, il mondo dei
produttori
Maysan Hamid, occhi
arabi e aria stanca, ha portato la bandiera dell'Iraq fra le 148 che hanno
sfilato ieri a Torino durante la cerimonia introduttiva solenne e colorata
di Terra Madre, incontro mondiale fra 1.600 comunità mondiali del cibo.
Cinquemila produttori - contadini, allevatori, pescatori, artigiani della
trasformazione - con 400 rappresentanti del mondo della ricerca e mille
cuochi.
Anche Maysan è cuoca ma dove ora vive, a Baghdad, non può certo fare il suo
lavoro; cucinerà qui, per questi giorni. Non ci sono i produttori di datteri
dell'Iraq, un tempo primo produttore mondiale, con decine di varietà; non
c'è nessuno dalla Corea del Nord. Ma è consolante vedere ben diciassette
gruppi dal Libano, e dall'Afghanistan i produttori di uvetta, pistacchi,
olio, e dallo Sri Lanka i coltivatori dei giardini di spezie eque - trionfo
di biodiversità - in ripresa netta dopo lo tsunami. Gli applausi più lunghi
sono stati per le bandiere libanesi, palestinesi, cubane e brasiliane, da
parte dei protagonisti del cibo «buono, giusto e sano», per dirla con
l'ultimo libro di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, il movimento ormai
multinazionale che ha inventato Terra madre la cui prima edizione di è
svolta nel 2004, sempre a Torino.
Cos'è una comunità del cibo? E' una filiera allargata e locale che va dai
selezionatori di sementi (seed savers) fino appunto ai cuochi e agli
studiosi, senza dimenticare i numerosi raccoglitori di frutti ed erbe
spontanee. Il cibo come sapore e come sapere, di piccola scala e alta
qualità, ha bisogno di tutte queste abilità e figure professionali
intrecciate per essere risorsa economica, ambientale, sociale e culturale. E
ne ha bisogno il futuro dell'agricoltura e del cibo; dunque della vita, in
Occidente come nel Sud del mondo.
Ecco alcune delle comunità fra quelle contadine e di raccolta (voglia di
conoscerle tutte... fortunate le famiglie piemontesi che hanno accolto gli
ospiti stranieri). Ecco qua: produttori rastafariani di cibo ital dalla
Giamaica; studenti contadini di Miami; raccoglitori di frutti selvatici del
Canada e del Kirghizstan; produttori di cachi essiccati del Giappone,
coltivatori maori di ortaggi dalla Nuova Zelanda; raccoglitori di erbe della
valle libanese Adonis; monaci birrai del New Mexico; raccoglitori Mapuche di
mirtilli palustri dal Cile, fornarette di San Javier in Bolivia; panettieri
della Finlandia; coltivatori di riso rosa del Madagascar, coltivatori di
ortica della Rift Valley in Kenya; raccoglitori di mango selvatico del
Gabon; produttori di «gradi del paradiso» in Camerun; promotrici dei
prodotti della foresta in Burkina Faso; produttori di felce salata in
Russia; coltivatori di piante officinali nei parchi, Sicilia.
E da Cuba...i produttori di macchine agricole. Più sanguigni gli allevatori
e i pescatori: caimani dell'Argentina, aragoste statunitensi, entomofagi di
Bobo Dioulasso (Burkina), presidio dell'agnello di Zeri e dell'asino
ragusano (da carne?).
Fino a lunedì, si incontreranno in molti seminari, tematici e per aree
geografiche. E fino ad allora, questa rubrica terraterra si trasferirà a
terramadre, per rendere conto delle mille storie di chi nel mondo produce
(buon) cibo.
Aminata Traoré, ex ministro del Mali e promotrice del progetto di
ristrutturazione dell'antico mercato ortofrutticolo di Bamako (un esempio di
quei mercati contadini che la Fondazione Slow Food finanzia, insieme ai
presidi per la valorizzazione della biodiversità e agli scambi fra
produttori), ha ripetuto che svincolandosi dalle catene dei potenti si può
lottare per un «mercato dal volto umano capace di imporre democrazia e
diritti». Ha detto Petrini: «Ci chiedevano: cosa state a pensare a questi
attori marginali, arcaiche forme di sussistenza? E invece è la dignità
dell'economia locale così creativa che ci consentirà di realizzare quel che
oggi è diventato un ossimoro: lo sviluppo sostenibile». Ha ricordato la
«vergogna di un paese che rende schiavi cittadini immigrati da altri paesi»,
l'attuale presidente di Slow Food International, e la follia di un «consumo
caratterizzato da velocità, abbondanza e spreco».
Ceto in questo genere di eventi il consumismo è quasi sempre un po'
presente; se non altro sotto forma dell'abbondante produzione di plastica
monouso che, ricorda l'involucro della salvietta detergente distribuita a
chi entra al contiguo Salone del Gusto, «se lasciata negli appositi
contenitori diventerà energia elettrica» (grazie a un inceneritore, si
presume). Per fortuna alcuni visitatori si sono dotati del bicchiere di
vetro con tanto di contenitore a tracolla, per degustazioni senza rifiuti.
Per info sui
Birrifici
Fonte
Karima Isd - Il Manifesto
Ottobre
2006
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