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29 agosto 2003 Pagina 41
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Dopo millenni la birra ha la sua Università Un ritratto della bevanda che dagli antichi egizi ai sardi di oggi ha stregato tutti i popoli

Produzione e Storia e geografia al primo anno, poi Tecniche dell’assaggio, Tipologia, Gastronomia, Attrezzature e impianti al secondo, Tecniche di spillatura, Analisi e controllo dei costi, Principi di marketing e promozioni e via la laurea. Perché l’Università della Birra non è mica uno scherzo. È come Giurisprudenza e Lettere e Medicina: esami e lezioni, lezioni e esami. Professori in cattedra. La biblioteca. L’aula magna.
Forse è solo un po’ più bella di quel Magistero grigio su un colle di Cagliari: perché è una villa, l’Università della Birra, Cascina Fiori di Azzate, giardino e terrazze e vetrate, appena appena fuori Varese, nella periferia ricca. Dove la birra è diventata materia di studio.
Il motivo? Lo spiega il rettore, un ex giornalista che si chiama Franco Re: «Il boom di pub e birrerie che si è verificato negli ultimi anni ha fatto sì che oggi in Italia ci siano birre di altissima qualità e locali di pregevole fattura, in grado di creare le tipiche atmosfere birrarie con alto valore socializzante che già esistono negli altri paesi europei».
Ma manca una tradizione solida, in Italia: «E inevitabilmente è nato il problema della gestione dei locali specializzati, così diversi dai locali storici italiani, come per esempio l’osteria e la trattoria». E poi, di birra non ce n’è mica una sola. Ognuna ha il suo colore, il suo sapore, il suo profumo. E il suo nome. Prendete la mars, per esempio: è una birra belga che viene lasciata fermentare a lungo, usando il residuo dell’infuso di malto, per essere bevuta in estate. Ha un colore chiaro e un gusto leggero. O la kriek, aromatizzata con le ciliegie. La scottish ale, birra scozzese dal tipico color noce, dovuto all’aggiunta di orzo tostato e malto scuro. È delicatamente amara e ha un gusto luppolato, mentre il sentore è piuttosto vario: dalla mela al ribes all’uva passa. E la tripel, ottenuta con un malto molto chiaro e con l’aggiunta di molto zucchero, ha colore chiaro, gusto asciutto e alta percentuale alcolica. Perché la gradazione è un’altra caratteristica della birra. Sempre diversa, da tipo a tipo. La belga trappista di gradi ne ha 10, la tedesca altbier 4, l’inglese bitter 5. La più alcolica? La barley wine, birra inglese ad alta fermentazione. Il nome significa “vino d’orzo”, è scura ma si può trovare anche color rame. Il gusto è dolciastro, il contenuto di zucchero alto, e alto il tasso di luppolo. Gradazione alcolica: 12 gradi. Di rigore, berla in un balloon, forma a chiudere per esaltare la schiuma e superficie ampia per favorire lo scambio termico. Bicchiere per birre da meditazione, corpose come il vino. Perché proprio come il vino, ogni birra ha il suo bicchiere. Sedici, in totale. C’è l’altglass, cilindrico - per non esaltare né mortificare la schiuma - e sottile - per dare già al tatto la sensazione della freschezza. C’è il calice a tulipano, dove la bocca svasata impedisce una schiumatura troppo abbondante e favorisce la percezione olfattiva al profumo. Per birre aromatiche, come le belghe d’abbazia. E c’è la colonna biconica: vetro di spessore medio, forma allargata al centro, bocca a chiudere: per pils belghe e per chi vuole la schiuma decapitata dalla spatola. E poi la coppa, il mass, la flute. La pinta, naturalmente: «la forma a cono rovesciato e lo slargo subito sotto l’orlo neutralizzano qualsiasi velleità di schiuma delle bitter ales e valorizzano invece la cream delle stout», spiega Marco Salvatore Tripisciano nel suo www.mondobirra.org. Facile da trovare anche nei bar di periferia è il boccale: vetro spesso per conservare la temperatura da cantina, vetro liscio per evidenziare lo scarso perlage. Ma se andate in Germania, provate a chiedere uno steifel: è il bicchiere di iniziazione alle confraternite studentesche. Ha la forma di uno stivale: e allora non importa tanto che cosa ci si beve ma come si beve, perché le anse e gli angoli e i bordi hanno spessori diversi e rovesciarsi la birra sulla camicia è più facile che fare un brindisi. Ma d’altronde, sono rischi da correre. Oggi come ieri. Se è vero che la parola birra compare per la prima volta su un papiro egiziano conservato al Museo di Torino: «Quando ti bacio sulle labbra dischiuse sono felice, anche senza birra». Senza birra, certo, dice l’egiziano, felice perché è innamorato, e allora va bene così. Ma con una birra, certo, sarebbe stato meglio. Perché gli egiziani bevevano birra. E i babilonesi pure: una tavoletta assira ritrovata nella fascia di territorio compreso tra i fiumi Tigri ed Eufrate, non solo nomina esplicitamente la birra ma cita addirittura il mestiere di birraio. La strada della birra passò per il Medio Oriente, e la materia prima del birraio era costituita da pani d’orzo germinati e cotti: bisognava sbriciolarli e aggiungere acqua per ottenere il malto. Pare che fossero addirittura venti le qualità di birra disponibili sul mercato di Babilonia, la più ricca città dell’antica Mesopotamia, anche se quelle più diffuse erano quattro: bi-se-bar, comune birra d’orzo, bi-gig, birra scura normale, bi-gig-dug-ga, birra scura di elevata qualità, e bi-kal, il prodotto migliore. La birra è la prima bevanda alcolica inventata dall’uomo. E, civiltà dopo civiltà, l’uomo la beve e e la produce. Un giorno Agricola, governatore della Britannia, tornò a Roma con un carico di nuovi schiavi: erano maestri birrai, e Agricola aprì quello che oggi si chiamerebbe pub. Poi arrivò il Medioevo con le ricette segrete dei monaci benedettini, il Rinascimento, il secolo dei Lumi, l’impero di Napoleone. L’Europa tutta beve la birra. E secolo dopo secolo, oggi un primato spetta alla Sardegna: è la prima regione italiana per consumo di birra. Anche se la vera regina vive in Olanda: è Charlene de Caravalho Heineken. Erede della birra. E donna più ricca d’Europa.

Francesca Figus


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