Produzione e Storia e geografia al
primo anno, poi Tecniche dell’assaggio, Tipologia,
Gastronomia, Attrezzature e impianti al secondo, Tecniche di
spillatura, Analisi e controllo dei costi, Principi di
marketing e promozioni e via la laurea. Perché l’Università
della Birra non è mica uno scherzo. È come Giurisprudenza e
Lettere e Medicina: esami e lezioni, lezioni e esami.
Professori in cattedra. La biblioteca. L’aula magna. Forse
è solo un po’ più bella di quel Magistero grigio su un colle
di Cagliari: perché è una villa, l’Università della Birra,
Cascina Fiori di Azzate, giardino e terrazze e vetrate, appena
appena fuori Varese, nella periferia ricca. Dove la birra è
diventata materia di studio. Il motivo? Lo spiega il
rettore, un ex giornalista che si chiama Franco Re: «Il boom
di pub e birrerie che si è verificato negli ultimi anni ha
fatto sì che oggi in Italia ci siano birre di altissima
qualità e locali di pregevole fattura, in grado di creare le
tipiche atmosfere birrarie con alto valore socializzante che
già esistono negli altri paesi europei». Ma manca una
tradizione solida, in Italia: «E inevitabilmente è nato il
problema della gestione dei locali specializzati, così diversi
dai locali storici italiani, come per esempio l’osteria e la
trattoria». E poi, di birra non ce n’è mica una sola. Ognuna
ha il suo colore, il suo sapore, il suo profumo. E il suo
nome. Prendete la mars, per esempio: è una birra belga che
viene lasciata fermentare a lungo, usando il residuo
dell’infuso di malto, per essere bevuta in estate. Ha un
colore chiaro e un gusto leggero. O la kriek, aromatizzata con
le ciliegie. La scottish ale, birra scozzese dal tipico color
noce, dovuto all’aggiunta di orzo tostato e malto scuro. È
delicatamente amara e ha un gusto luppolato, mentre il sentore
è piuttosto vario: dalla mela al ribes all’uva passa. E la
tripel, ottenuta con un malto molto chiaro e con l’aggiunta di
molto zucchero, ha colore chiaro, gusto asciutto e alta
percentuale alcolica. Perché la gradazione è un’altra
caratteristica della birra. Sempre diversa, da tipo a tipo. La
belga trappista di gradi ne ha 10, la tedesca altbier 4,
l’inglese bitter 5. La più alcolica? La barley wine, birra
inglese ad alta fermentazione. Il nome significa “vino
d’orzo”, è scura ma si può trovare anche color rame. Il gusto
è dolciastro, il contenuto di zucchero alto, e alto il tasso
di luppolo. Gradazione alcolica: 12 gradi. Di rigore, berla in
un balloon, forma a chiudere per esaltare la schiuma e
superficie ampia per favorire lo scambio termico. Bicchiere
per birre da meditazione, corpose come il vino. Perché proprio
come il vino, ogni birra ha il suo bicchiere. Sedici, in
totale. C’è l’altglass, cilindrico - per non esaltare né
mortificare la schiuma - e sottile - per dare già al tatto la
sensazione della freschezza. C’è il calice a tulipano, dove la
bocca svasata impedisce una schiumatura troppo abbondante e
favorisce la percezione olfattiva al profumo. Per birre
aromatiche, come le belghe d’abbazia. E c’è la colonna
biconica: vetro di spessore medio, forma allargata al centro,
bocca a chiudere: per pils belghe e per chi vuole la schiuma
decapitata dalla spatola. E poi la coppa, il mass, la flute.
La pinta, naturalmente: «la forma a cono rovesciato e lo
slargo subito sotto l’orlo neutralizzano qualsiasi velleità di
schiuma delle bitter ales e valorizzano invece la cream delle
stout», spiega Marco Salvatore Tripisciano nel suo
www.mondobirra.org. Facile da trovare anche nei bar di
periferia è il boccale: vetro spesso per conservare la
temperatura da cantina, vetro liscio per evidenziare lo scarso
perlage. Ma se andate in Germania, provate a chiedere uno
steifel: è il bicchiere di iniziazione alle confraternite
studentesche. Ha la forma di uno stivale: e allora non importa
tanto che cosa ci si beve ma come si beve, perché le anse e
gli angoli e i bordi hanno spessori diversi e rovesciarsi la
birra sulla camicia è più facile che fare un brindisi. Ma
d’altronde, sono rischi da correre. Oggi come ieri. Se è vero
che la parola birra compare per la prima volta su un papiro
egiziano conservato al Museo di Torino: «Quando ti bacio sulle
labbra dischiuse sono felice, anche senza birra». Senza birra,
certo, dice l’egiziano, felice perché è innamorato, e allora
va bene così. Ma con una birra, certo, sarebbe stato meglio.
Perché gli egiziani bevevano birra. E i babilonesi pure: una
tavoletta assira ritrovata nella fascia di territorio compreso
tra i fiumi Tigri ed Eufrate, non solo nomina esplicitamente
la birra ma cita addirittura il mestiere di birraio. La strada
della birra passò per il Medio Oriente, e la materia prima del
birraio era costituita da pani d’orzo germinati e cotti:
bisognava sbriciolarli e aggiungere acqua per ottenere il
malto. Pare che fossero addirittura venti le qualità di birra
disponibili sul mercato di Babilonia, la più ricca città
dell’antica Mesopotamia, anche se quelle più diffuse erano
quattro: bi-se-bar, comune birra d’orzo, bi-gig, birra scura
normale, bi-gig-dug-ga, birra scura di elevata qualità, e
bi-kal, il prodotto migliore. La birra è la prima bevanda
alcolica inventata dall’uomo. E, civiltà dopo civiltà, l’uomo
la beve e e la produce. Un giorno Agricola, governatore della
Britannia, tornò a Roma con un carico di nuovi schiavi: erano
maestri birrai, e Agricola aprì quello che oggi si chiamerebbe
pub. Poi arrivò il Medioevo con le ricette segrete dei monaci
benedettini, il Rinascimento, il secolo dei Lumi, l’impero di
Napoleone. L’Europa tutta beve la birra. E secolo dopo secolo,
oggi un primato spetta alla Sardegna: è la prima regione
italiana per consumo di birra. Anche se la vera regina vive in
Olanda: è Charlene de Caravalho Heineken. Erede della birra. E
donna più ricca d’Europa.
Francesca Figus
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